Sovraindebitamento e crisi d’impresa: le pretese tributarie

È noto che uno degli ostacoli maggiori alla presentazione e alla sostenibilità di un piano di cui alle procedure della Legge n. 3/2012 (sovraindebitamento), è rappresentata dalla sussistenza, nei casi pratici, di ingenti debiti tributari costituiti principalmente da imposte IVA e contributi previdenziali non versati.

L’art. 7 n. 1 della suddetta legge stabilisce infatti che «[…] In ogni caso, con riguardo ai tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea, all’imposta sul valore aggiunto e alle ritenute operate e non versate, il piano può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento

Tale disposizione, chiara e lapidaria nel suo senso letterale, ha subito diverse critiche da parte degli operatori del diritto tanto che nella prassi si è verificato un contrasto giurisprudenziale per cui, mentre alcuni giudici hanno applicato, de plano, la disposizione, altri Tribunali si sono spinti (in sede di approvazione del piano del consumatore e anche di omologa di accordo con i creditori e proposta liquidatoria) a considerare la questione in modo più ampio tenendo conto delle modifiche intervenute in questi anni nella legge fallimentare e delle decisioni della Corte di Giustizia Europea che si è occupata già alcune volte del tema.

È dunque necessario ricordare che la riforma della Legge Fallimentare (R.D. 267/1942) (L.232/2016) ha introdotto l’art. 182 ter che disciplina la transazione fiscale nell’ambito del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione: per la prima volta nel nostro sistema giuridico si è fatto strada il principio per cui è possibile stralciare i crediti tributari e, principalmente, i crediti per IVA e ritenute previdenziali non versate.

Sino ad allora, il legislatore non si era mai spinto a operare una rivoluzione di questo genere in ossequio ai principi dettati dalla legislazione della Comunità Europea che prevede l’applicazione dell’IVA per le cessione di beni e prestazioni di servizi all’interno della comunità gli Stati membri e che stabilisce che gli Stati membri  devono assicurare l’esatta riscossione dell’imposta IVA e evitare frodi (art. 2  e 22 sesta direttiva): da ciò è sempre stato considerato esistente un principio assoluto di infalcidiabilità dell’IVA.

Tuttavia, la rigidità di tale sistema non consentiva di accedere alle procedure elaborate dal legislatore che consentono all’imprenditore di evitare il fallimento nello scopo palese di arginare “il decesso” di imprese provocata dalla grave crisi economica in cui versa il nostro paese da molti anni.

E significative esigenze socio economiche hanno fatto sì che si cercassero i giusti principi giuridici per attuare il necessario passaggio e svincolarsi da una previsione troppo tranciante.

I suddetti principi sono stati “trovati” in buona sostanza attraverso alcune decisioni delle Corte di Giustizia Europea: ci riferiamo alla sentenza del 07.04.2016 emessa nella causa C- 546/14 e alla sentenza del 16.03.2017 emessa nella causa C – 493/15.

In particolare, mentre la prima ha sancito l’ammissibilità di un pagamento parziale del credito IVA e dei tributi che rappresentano risorse proprie dell’Unione Europea in ambito di una procedura di concordato, la seconda ha chiaramente statuito che «Il diritto dell’Unione […] in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, nonché norme sugli aiuti di Stato, deve essere interpretato nel senso che non osta a che i debiti da imposta sul valore aggiunto siano dichiarati inesigibili in applicazione di una normativa nazionale […] che prevede una procedura di esdebitazione con cui un giudice può, a certe condizioni, dichiarare inesigibili i debiti di una persona fisica non liquidati in esito alla procedura fallimentare cui tale persona è stata sottoposta».

Dunque, a certe condizioni, tutti i debiti tributari possono essere dichiarati inesigibili o parzialmente inesigibili in quanto ciò non costituisce una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA e non è contraria all’obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo né alla riscossione effettiva.

E i principi in virtù dei quali ciò è possibile sono sostanzialmente quelli che sottostanno sia alla legge sul sovraindebitamento che, come vedremo, al nuovo codice sulla crisi di impresa di prossima entrata in vigore.

Tali principi possiamo dire che, in linea generale attengono al fatto che il debitore abbia un patrimonio di fatto incapiente per cui, anche se si procedesse alla liquidazione non si otterrebbe il pagamento integrale dei crediti tributari; al fatto che la incapienza del patrimonio del debitore deve essere “incolpevole” (ovvero il debitore non deve avere nascosto proventi o attività); e infine al fatto che al creditore fiscale deve essere garantito il diritto di voto nella specifica procedura.

In buona sostanza si è favorita una ratio di tutela dell’impresa in modo da consentire anche a chi, senza sua colpa, ha “fallito”, possa liberarsi e riprendere a divenire nuovamente produttivo nell’ambito della collettività.

D’altra parte è evidente che un sistema giuridico ingessato dalla rigidità di uno Stato miope è un sistema che si “autoannienta” economicamente.

Queste premesse spiegano per quale ragione pur prevedendo, la legge sul sovraindebitamento (n. 2/2012) solo la possibilità della rateazione e non adottando (inspiegabilmente) i principi già adottati in ambito fallimentare con l’inserimento della norma sulla transazione fiscale (art. 182 ter), una attenta giurisprudenza abbia capito come non vi siano ragioni per non estendere gli stessi principi al di là del testo letterale della norma e, oggi, numerosi piani e procedure da sovraindebitamento vedono la approvazione con la falcidia dei crediti fiscali.

In vigenza di tale normativa, dunque possiamo concludere che, facendo appello a questi principi e anche ai numerosi precedenti già disponibili, è possibile oggi accedere alle procedure di cui alla Legge n. 2/2012 mediante falcidia del fisco.

La questione appena discussa verrà, comunque, superata dalla entrata in vigore del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della Legge 19 Ottobre n. 155 D. Lgsl. 12 Gennaio 2019 n. 14.

Infatti, tale normativa, realizzando appieno le finalità della Legge 3/2012, ha definitivamente eliminato il divieto di falcidia di tutti i crediti fiscali introducendo i criteri della transazione fiscale anche alle procedure previste dalla stessa legge.

E così: l’imprenditore in stato di crisi che preveda un piano di risanamento e/o di ristrutturazione dei debiti ex artt. 57, 60 e 61 può proporre una transazione fiscale.

A garantire il requisito di cui più sopra parlavamo (ovvero l’impossibilità reale per il fisco di soddisfarsi integralmente in caso di liquidazione dei beni) occorre l’attestazione di un professionista circa la «convenienza del trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale»(art. 63 D. lgsl. 14/2019).

Allo stesso modo, nel caso di concordato (sia in continuità aziendale che in liquidazione) l’art. 88 della legge prevede che “Con il piano di concordato il debitore, […] può proporre il pagamento, parziale o anche dilazionato dei tributi e dei relativi accessori amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie e relativi accessori, se il piano ne prevede la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile».

Pertanto, con la cautela necessaria derivante dalla necessità dell’esperimento e dell’applicazione concreta della normativa, si può forse dire che oramai l’argine della intangibilità dei debiti fiscali sia stato definitivamente travalicato.

avv. Barbara Vezzali – Foro di Modena

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